Recensione del libro “Il secondo piano” di Ritanna Armeni
È possibile che una giornalista come Ritanna Armeni, fondatrice del manifesto femminista, con una lunga militanza politica nel partito comunista, possa scrivere con convinta empatia ed ammirazione un libro che tratta di suore? Sì, è possibile. Lei stessa ha dichiarato, dopo questo scritto: “Nella Chiesa trovo continuità con il mio passato comunista”.
Ma veniamo alla trama del libro, che tratta di una storia vera. Nella Roma occupata dai nazisti, tra le mura del convento di via Poggio Moiano, accadde qualcosa di incredibile, ancorché non raro in quel periodo: le suore francescane della Misericordia nascosero 47 ebrei (ridotti a 12 nel romanzo per esigenze narrative) sfuggiti al rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943.
Attraverso l’intervista all’ultima suora ultranovantenne testimone degli eventi descritti nel libro insieme ad un’accurata documentazione, Ritanna Armeni racconta la pericolosa e rocambolesca vicenda di queste suore romane che nascosero un nutrito gruppo di ebrei tra i quali bambini – a cui insegnarono le preghiere cristiane facendoli frequentare il loro asilo cattolico – e donne alle quali fecero mettere il velo da suore.
La scrittrice è rimasta talmente ammirata dal coraggio di queste religiose tanto da definirle “autentiche avventuriere della carità, trasgressive fino a rischiare la vita e dotate di un coraggio quasi picaresco”. Le suore sono così diventate ai suoi occhi l’incarnazione di un femminismo fatto di libertà e indipendenza, sfuggendo al cliché patetico e duro a morire, di chi le considera ancora oggi dimesse, frustrate o fuori dal mondo.
In questo libro inoltre viene in qualche modo sfatata la diceria che Papa Pacelli fosse indifferente alla sorte di milioni di ebrei perseguitati; le suore infatti pur agendo in piena libertà avevano contatti frequenti e segreti col Vaticano da cui arrivavano nascostamente numerosi viveri portati in molti casi personalmente da suor Pascalina, l’assistente di Pio XII, altra donna di grande carattere.
Nel libro inoltre c’è anche menzionato un ragazzo, Giulio, che fa la spola tra il Vaticano e gli istituti religiosi portando delle buste di documenti falsi da consegnare agli ebrei: era Giulio Andreotti.
Papa Pacelli era certamente al corrente di questi avvenimenti e dice l’Armeni: “mi sono fatta l’idea che le suore hanno esercitato coraggiosamente una carità derivante dalla loro vocazione che non è stata intralciata dall’alto, ma della quale si sono assunte pienamente tutta la responsabilità”.
Alla domanda rivolta alla scrittrice: come si concilia il suo passato di militante comunista con il presente della Chiesa, l’Armeni risponde con le testuali parole: “non solo si concilia benissimo, ma è l’unico modo per essere coerenti con quello che ho vissuto, perché nel cattolicesimo si mantiene un valore che gran parte del mio “mondo” del passato ha abbandonato e negato: l’importanza del NOI rispetto all’IO. Il noi nel mondo religioso ha ancora una grande importanza. Oggi invece nella politica, nella cultura, dove non c’è più una classe di intellettuali preoccupata del popolo, nel sociale, il primato dell’io e la forza del leader sono diventati dominanti e hanno prodotto molti danni. Nel mondo religioso trovo grande continuità in quello in cui ho creduto, la possibilità che uomini e donne costruiscano qualcosa insieme. Noi siamo abituati a parlare della Resistenza com’è narrata nei manuali di storia intrisa di lotte, violenze, angherie, soprusi fatti in nome della Libertà, della Patria, ideologie di cui è pieno il Novecento. E invece mi sono ritrovata di fronte a un tipo nuovo di Resistenza, fondata sul concetto di carità e condotta senza sventolare bandiere, nel silenzio assoluto dei conventi per amore della persona. Anche questa è Resistenza”.
Al momento in cui concludo questo articolo, leggo su “Avvenire” una proposta di Marco Tarquinio (direttore di questo quotidiano) che propone che là dove c’è stato un convento, un istituto di religiose che ha compiuto atti di Resistenza come l’aver ospitato ebrei, antifascisti e perseguitati dal regime fascista, venga intitolata una strada o una piazza “alle Suore della Resistenza”.
Personalmente non ho tante informazioni riguardo le nostre Suore Dorotee casolane, ma so per certo che durante la guerra e per sfuggire ai bombardamenti o cannoneggiamenti che avevano preso di mira il nostro paese, le nostre suore fecero il possibile per mettere al sicuro le numerose “orfanelle” che ospitavano nel convento. Un particolare mi è rimasto impresso nel racconto che mi fece una di quelle piccole “orfanelle” (molte erano solo ospiti) che era Anita Leonardi: mi raccontava che per sfollare verso i Dilatti suore e bambine dovettero attraversare il fiume legate l’una all’altra con una corda… ma questa è un’altra storia, che andrebbe indagata più a fondo… peccato che ormai le testimoni di quegli eventi siano ormai rimaste ben poche. E allora dovremmo sempre ricordare le parole di Josè Saramago quando dice che “noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.”
Cerchiamo di fare memoria del nostro passato e di tramandarlo ai nostri figli, nipoti, giovani virgulti che senza radici non avranno la forza di resistere alle bufere che verranno così come hanno fatto tutti coloro che ci hanno preceduto col loro esempio e il loro coraggio.
Nives Pirazzoli