“Benzodiazepina, non toccarmi la tristezza, farmaco generico, non mi spaventi tu.”Tristezza – Elio e le storie tese – Studentessi (2008)

Introduzione:
Nuova metafisica del carro
Non è più sufficiente, per quanto mi riguarda, studiare i “carri allegorici” come simboli più o meno azzeccati di astrazioni dialettiche. Non è più sufficiente leggerli come creative sfide di borgata. Come studenti di provincia a cui dare un voto. Come incastri di legno e tempere atti a sfogare concetti più o meno prevedibili. No. Non è più sufficiente. Mi spiace.
Non è più sufficiente perché io li ho visti. Sotto la pioggia. Mentre nuvole grigie tagliavano le colline. Li ho visti, tendere al cielo, accartocciati di plastica e con poca voglia di parlare. Li ho visti. Quasi ipnotici, aspettare che l’Appennino smettesse di grondare. Li ho visti, e vi avviso, quelli che ho visto non sono più allegorie di qualcosa. Ma sono ormai qualcosa in sé. Indipendenti. Misteriosi. Enigmatici e solitari come allucinazioni notturne.

I “carri allegorici” sono diventate visioni, miraggi, sogni. E, per quanto mi riguarda, andranno presi e analizzati in quanto tali.
Così, sfogliando i miei ricordi, mi è tornato alla mente un tale Ludwig Strumpell, psicanalista precursore di Freud e Jung, il quale, forse con un velo d’arroganza, sosteneva che se c’è qualcosa di bello nei sogni è il loro “essere staccati dal mondo della coscienza sociale e dal mondo della coscienza civile”.
Quindi, senza avviso alcuno, mi spiace informarvi che in mezzo ai nostri monti, lungo le antiche strade che uniscono la Romagna alla Toscana, non si fabbricano bizzarre strutture in gesso con specifiche finalità didattiche o educative. Si fabbricano momenti onirici trainati da trattori. Momenti onirici figli di sogni collettivi. Figli di ricordi perduti. Figli di futuri imprevedibili e caotiche processioni.
Con queste bizzarre premesse non si può certo definire quale sogno sia più accattivante. Si può solo ammettere quale sogno ci ha coinvolto di più, portandoci altrove, e facendoci sentir parte di un esplorazione collettiva, esplorazione priva di eccessivi riferimenti al reale e all’attualità. Esplorazioni sempre più liriche e intimiste, staccate dal mondo della coscienza sociale e dal mondo della coscienza civile.


Calamitati: dolci apocalissi quotidiane

“Il mondo ha un senso solo se costringiamo ad avercelo. E un giorno, finirà, è sicuro.”
Non esiste, dal punto di vista semantico, una vera e propria differenza tra il termine incubo ed il termine sogno: possiamo semplicemente dire che, comunemente, l’ incubo è quel sogno da un contenuto orrorifico e/o pauroso. Questione di contenuti dunque, o di colori e rumori, lo schema dei due processi onirici è praticamente lo stesso.
Colpisce, di questo piccolo incubo scarno, composto da un breve saggio sull’indeterminazione dell’esistenza umana e da una visione mobile che ricorda il mondo concettuale e metafisico di De Chirico, uno strano senso di stanchezza e rassegnazione. Più che un sogno, la fine di un sogno. Un risveglio vagamente amaro. Una clessidra talmente svogliata da risultare vuota, ferma, bloccata, appena abbozzata.
Non c’è più tempo per l’uomo. Ma non perché il tempo sia finito, perché il tempo, infondo, non c’è mai stato. Perché la tettonica a placche, tutto sommato, non si è verificata millenni orsono, in realtà può essersi verificata anche ieri. E si verifica tutt’ora. 
Traspare così, nella sintesi della nostra processione domenicale, un semplice e onesto inno alla vita. Un inno rassegnato. Decadente. Visivamente minimale e quasi svogliato. Un inno circolare, anzi, multi circolare, che riprende la complessità matematica del calendario Maya. Privo di quella coscienza critica che renderebbe i sogni, o gli incubi, troppo razionali e matematici. Privo di quella volontà alla correzione esistenziale che renderebbe inutile il caos surreale delle nostre fasi REM.
Perché ogni tanto è gradevole non porsi troppe domande. Lasciarsi addormentare in un quieto pessimismo. Lasciarsi appisolare, esausti del proprio percorso dialettico, lirico e sociale. Lasciarsi convincere che la nostra civiltà non ha senso alcuno, è solo un languido “condominio costruito su un’area sismica”. E ammettere, finalmente, che tra sogni ed incubi, alla fine dei conti, non c’è poi tanta differenza.


Difetti di fabbrica: Guastatori si nasce. Non si diventa.

E pensare che quando la Ford Motor Company istituì la catena di montaggio come nuovo sistema di assemblaggio di prodotti industriali, sistema che ottimizzava il lavoro degli operai e riduceva i tempi necessari alla costruzione di un manufatto complesso, diede vita a quella che molti storici ed economisti definiscono “Ingegneria moderna”. Senza l’ “Ingegneria moderna”, lo sappiamo tutti piuttosto bene, la nostra vita quotidiana, la nostra e quella di tutti gli aborigeni del pianeta Terra, sarebbe non solo più costosa (parlo di quattrini veri e propri), ma anche più pericolosa e incivile (parlo di assenza di democrazia, diritti umani e equa distribuzione della cultura).
Ovvio, ad ogni pro esiste un contro: e allora molte teorie nacquero intorno al fatto che il lavoro fortemente ripetitivo richiesto agli operai nelle catene di montaggio procurasse, agli operai addetti alla “catena”, alienazione della psiche e inconvenienti motori. Ma resta il fatto che oggigiorno, l’automazione e l’uso di robot per svolgere le operazioni maggiormente replicate o pericolose, ha ristretto notevolmente gli aspetti negativi correlati alla produzione in serie.
Come dire: la produzione in serie è ineluttabile cari miei. Solo alcuni si possono permettere di criticarla: chi da essa non dipende o finge di non dipendere.
Esistono infatti comunità “freak” sparse per il mondo, collettivi indipendenti e, a tratti, “monocellulari”, ma non sono ben viste, e sono ormai considerate fuori moda tanto da sociologi che da intellettuali di svariato genere. Figlie delle controrivoluzioni degli anni ’60 e ’70, sono i residui della cultura hippy, cultura che ci ha attentamente messo in guardia dai rischi di un eccessiva dipendenza robotica.
Detto questo, il percorso creativo di “Difetti di fabbrica” appare ineccepibile. Netto. Chiaro. Puntuale. Lontano da ogni mia teorizzazione onirica. Lo schema dialettico/visivo che porta a criticare temi attuali come la “Globalizzazzione” e la massificazione da mass – media risulta pressoché perfetto. La strategia didascalica dello scatolame/appartamento/televisore è evidente. Facile da capire per chiunque percorra la passerella insieme al carro. Il suo evidente taglio pedagogico rende il carro un meccanismo ben funzionante e attento ad indicare allo spettatore la problematica presa in esame. Certo, una tematica vagamente antiquata, ma comunque molto ben illustrata, soprattutto nell’esplosione cubista della struttura.
Resta un dubbio. Un incertezza. Un incongruenza grave.
Proprio mentre si incita alla nascita del “guastatore”, di colui che si eleva dalla catena di montaggio per “cancellare i segni di un percorso prefissato”, ci si accorge che questo guastatore non parla attraverso una nuova lingua. Una lingua magari anticonformista, impulsiva, improvvisata e politicamente scorretta. Il guastatore parla attraverso le “fasi” e le “icone” della cultura industriale, la stessa cultura che lo ha forgiato, la stessa cultura che egli critica e dalla quale vorrebbe, invano, liberarsi. E, involontariamente, mostra la sua ineluttabile necessità a vivere all’interno del sistema. Questo, indifferentemente dalla funzionalità del carro, è un problema logico da non sottovalutare. Un paradosso forse involontario che rigetta l’allegoria ragionata nell’onirismo più insensato.



Placebo: compimento di un percorso psichiatrico

L’enorme ingranaggio neuronale. E’ tutto concentrato lì. E non serve altro. Non serve raccontare una storia. Non serve chiedersi cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non serve dire chi ha ragione e chi ha torto. Serve ringraziare i propri compagni di viaggio. Tutti quei piccoli o grandi gesti scaramantici, tutti quegli occhi, quelle mani, quegli errori, che ci hanno accompagnato lungo un viaggio creativo. Lungo un sogno di mezza collina.
Placebo non è propriamente un “carro allegorico”. Non è un “questo vuol dire quello e quello vuol dire questo”. E’ una circolarità ben fatta, a partire dalla sua base semisferica. Una circolarità reiterata. Grottesca e sarcastica. E’ una circolarità che, come un medicinale o una droga collettiva, và, semplicemente, assunta e riassunta, per continuare a credere nell’uomo. E’ una circolarità, come le lunghe tese del Cappellaio di Alice, maestro indiscusso della confusione e del non sense.
Non sono uno storiografo della “carrologia della Valle del Senio”, ma per quanto ne so’, Placebo è la fine di una riflessione comunitaria (volontaria o meno non importa) durata decenni. Non importano i contenuti, non importano i simbolismi non svelati, non importano gli ermetismi difficili da decifrare.
Importa un gruppo di persone che pare non voler insegnare nulla. Che ammette la propria inspiegabile tossicodipendenza alla vita. Alla vita presa con sarcasmo. Quasi con eterna ironia. E grazie a Dio, differentemente da come indicato nel foglietto illustrativo, piena di “individualismo ad personam” che ogni tanto, e che cazzo, fa bene. Anzi, benissimo. 
Ed i ringraziamenti finali, come i titoli di coda di un sogno ostile alla comprensione, risultano forse la cosa più fresca e gradevole dell’intera parata primaverile. La cosa più vera. Buttata giù con l’ “incoscienza” dei sognatori, con la leggerezza di chi ha compiuto un proprio tragitto di formazione, e stanco, si lascia andare ad un libero salmo al proprio micro contesto sociale. Non interessandosi troppo a simbolismi e ad allegorie troppo spesso prevedibili. 


Conclusioni:
Essere e Rappresentare


Nessuna semiotica questa volta. Nessun eccessivo percorso logico. Non mi è parso il caso.
Se il carro perde l’allegoria e si fa visione pura, come forse sta accadendo, ci troviamo di fronte allo sviluppo di nuovi linguaggi, nuovi linguaggi imprevedibili e tra loro distanti. Non si può paragonare il lancio sul mercato di un medicinale alla crisi esistenziale di chi coraggiosamente narra le innumerevoli apocalissi a cui siamo perennemente sottoposti. Non si può.
Possiamo solo aver vissuto intensamente questi carri, possiamo aver vissuto le loro strategie comunicative, i loro momenti onirici, i loro silenzi e i loro tempi morti. Sotto la pioggia. Sotto il sole. Lungo la via principale del nostro paesello.
Possiamo essere soddisfatti dell’evoluzione che stanno subendo. Da oggetti che rappresentano qualcosa, a oggetti che sono qualcosa. 
Ed essere soddisfatti, molto soddisfatti, che questo fenomeno paranormale di trasmutazione di gesso in sogni si verifichi, a quanto pare, in mezzo ai nostri indecisi colli. Attenti più che mai a raccontarci una metafisica dell’Appennino, metafisica pronta ad esplodere e a fiorire da un momento all’altro.
 
Fabio Donatini
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