Sl’è nòt us’ farà dè

La mia parola preferita è resistenza. È bellissima, perché testimonia da sola tutte le cose alle quali credo.

Ho visto una parte del paese resistere all’alluvione, non cedere e restare ancorato al rivale. Ho visto le persone resistere, quando venivano sfollate senza sapere quando avrebbero rivisto la propria casa. Ho visto le aziende resistere nonostante l’impossibilità a portare avanti le consegne nei tempi dovuti. Il resistere di tutti noi, che invece di mandare tutto all’aria abbiamo deciso di restare qui.

Non sono un reporter di guerra, non ho fegato e sangue freddo a sufficienza per correre tra le mine, ma è quella la fotografia che ho sempre sognato di fare. Raccontare la bellezza nel dolore.

Attraversare in lungo e in largo Casola Valsenio con 20mila passi giornalieri sul fango e le frane mi ha dato modo di ritrarre questa bellezza. Avrei preferito non doverlo fare, ma è successo. E non potevo lasciare che tutto passasse inosservato e venisse dimenticato.

Ho visto strade, campi e case che non esisteranno più. Un modo di vivere che non esisterà più.

Perché ogni volta che un temporale durerà più di 5 minuti, noi tutti non riusciremo più dormire e staremo male.

Malissimo.

Come la notte del 16 maggio, quando eravamo tutti svegli a pregare non-so-chi perché smettesse di piovere, ma quel non-so-chi aveva le orecchie ben tappate. E allora ci scrivevamo tra noi, per sapere come andava, cosa succedeva, quanto saliva l’acqua e chissà cosa si era portato via quel boato vicino a casa.

Un campo? Un bosco? Un campanile? Una scuola? Una casa? Una stalla?

Finché alle 3 di mattina un cavo salta, internet sparisce e tutti restiamo al buio, in sospeso, senza sapere come stanno amici e parenti, con i pensieri che fanno un gran rumore, ma non così tanto da coprire quello del temporale e dei boati degli alberi che si spezzano come delle ossa rotte.

Da quella notte, alcuni di noi si sono svegliati come sempre, altri con la casa mescolata con la montagna, altri con gli animali che urlavano sotto le macerie, ma tutti senza sapere cosa fosse successo all’altro. Questa è stata la paura più grande che ci ha reso tutti piccoli ed inutili.

Prendermi 20 giorni dal mio lavoro per testimoniare tutto questo è per tutti quelli che verranno, che penseranno che al massimo si sono rovesciati due alberi su una strada, che tanto non è morto nessuno. Ma anche che c’era una scuola autogestita per l’isolamento, che dei bambini mandavano avanti l’emporio dei rifornimenti, che sono diventate amiche persone che prima non si parlavano.

Che ragazzi e adulti si sono stretti assieme attorno alle crepe delle montagne senza permettere che spaccassero ancora di più il nostro paese.

Che abbiamo resistito, che stiamo resistendo.

Le immagini che vedrete sono il risultato di una serie di pugni allo stomaco. Pugni buoni e cattivi, come quella che prendi dai compagni di classe più grandi, che fanno male ma fanno crescere.

Grazie a tutti voi, e a Flavio in primis, per avermelo permesso.

Stefano Poggi

«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Cesare Pavese, La luna e i falò