I LUOGHI DEL NON-TEMPO

Conoscete Primark?

Si tratta di una nota catena irlandese, approdata anche in Italia da qualche anno, che vende qualsiasi tipo di abbigliamento a prezzi davvero stracciati. In realtà non m’interessa riassumere i pro e i contro dell’azienda: si noti come avrei potuto citare qualsiasi altro colosso commerciale che fattura miliardi come noccioline al Multisala, sennonché fu proprio con tale marchio che ebbe inizio la riflessione esposta qui sotto.

Vorrei però fare una fare una premessa: l’intenzione che muove il discorso non è quella di procedere ad analizzare le contraddizioni relative all’era della mercificazione e della ricerca dell’utile, citando Marx come di consueto e dibattendo su quanto sia immorale la logica del consumo senza freni. In primis perché sarebbe un’immagine troppo grande da descrivere in poche righe; inoltre, credo sia ormai evidente più o meno a tutti il prezzo da pagare alla nostra società globalizzata (pensate al neomovimento ambientalista), senza che ci sia qualcuno a ripetere le stesse cose sentite in Tv come fosse un pappagallo.

C’è solo una questione su cui mi preme far luce: si tratta di un elemento che io reputo occultato (non a causa di qualche complotto, sia chiaro) per favorire i meccanismi del mercato, e del quale spero possa lasciare qualche insegnamento ai lettori, consapevoli di essere consumatori a tutti gli effetti, a volte ignari del tempo che hanno perduto e che potrebbero perdere di nuovo.

Durante lo scorso inverno, nel mezzo di una gita fuori porta, il mio cammino si vide costretto a varcare l’enorme atrio dei “Gigli”, famoso centro commerciale nei pressi di Firenze. La mia morosa, prima del rientro verso casa, decise (da sola) che era “giusto” fare tappa in quel posto, per via di un’imperdibile occasione che si trovava al suo interno (secondo me, l’aveva studiata bene).

Premetto che non sono un amante dei luoghi super affollati, adibiti allo smercio, dove il capitalismo suona e canta al battito di cassa (non la batteria) di negozi e supermercati, come farebbe un re compiaciuto dai suoi esattori. Non che ci sia niente di male ovviamente: siate liberi di andarci se vi fa stare bene; io stesso non sono un estraneo ai centri di Imola e Faenza, senza contare che erano la meta prediletta di quando si marinava le superiori (oramai si può dire, dai).

Così, pure quella volta –  non per mia volontà – varcai l’ingresso del paradiso dei consumatori seriali, e mi mescolai tra loro. Dopotutto, quale modo migliore per studiare la psicologia delle persone nel momento in cui si trovano inscatolate come sardine durante il periodo dei discount, mi sono detto.

Fa sempre piacere notare, per esempio, come i negozi di abbigliamento gravitino attorno ad un assioma  matematico ormai assodato: ad ogni donna in coda per il camerino corrisponde un uomo a sedere fuori dal locale, diseguale e contrariato. Moltiplicate per il numero delle coppie presenti e infine suddividete la quantità delle panchine disponibili: il totale è quello dei posti che non sono ancora stati occupati all’interno del centro commerciale. Se non lo sapete, ve lo dico io: molto pochi.

Questa volta, tuttavia, m’impegnai personalmente al fine di essere un buon accompagnatore, lasciando indietro le rare occasioni di ristoro che si presentavano al mio passaggio. Non potevo, però, dare senza ricevere nulla in cambio. Capita talvolta che, quando mi trovo in estremo disappunto su qualcosa, sento il bisogno di fare la paternale al mio interlocutore, con la pretesa di insegnare un po’ come si dovrebbe stare al mondo. Nel caso specifico, cercai di convincere la mia metà che non è possibile adorare degli oggetti, che la moda è stupida, che tanto non compro niente perché i bisogni umani sono ben altra cosa, eccetera. Insomma, dopo avermi trascinato in quel posto, dovevo fargliela un po’ pagare.

Morale della favola: a fine giornata, quello che fece più acquisti fui io, nonostante la mia reputazione da brontolone, mentre lei non spese neanche un centesimo bucato.

La storia, tuttavia, non finisce qui. Il resoconto dell’episodio mi serve infatti – oltre a mettervi in guardia dai bacchettoni – per sottolineare la dinamica delle impressioni suscitate in me dopo quell’esperienza apparentemente innocua e ordinaria.

C’è una sbavatura tra quelle gigantesche mura dove tutto pare sia perfetto, a misura del consumatore. In virtù della mera compravendita, tutto viene impacchettato a regola d’arte: ogni ambiente è accuratamente illuminato e climatizzato per un soggiorno accomodante, con una grande varietà di servizi e con posti tavolo per fermarsi a mangiare tra un acquisto e l’altro.

Insomma, è l’atteggiamento professionale da tenere, la giusta maniera per non far mancare nulla ai clienti, è chiaro.

E invece qualcosa manca: il tempo.

In quest’aura di perfezione avvolgente, il tempo non esiste. Non ci sono elementi fisici che ti suggeriscono lo scorrimento delle ore: la luce artificiale crea una situazione di giorno perpetuo, molto spesso gli spazi sono privi di finestre e tutto è talmente vasto che risulta difficile farsi un’idea di cosa accade all’esterno. Se fossimo costretti a rimanere chiusi lì dentro (nelle condizioni descritte), non sapremmo mai se fuori piove o se c’è il sole, se esiste un andamento ciclico del giorno, se poi dopo la luce sopraggiungano le tenebre.

Tutto quanto è maledettamente fermo, immobile.

È davvero così il paradiso che ci vogliono vendere? Se dovessi pensare che il Regno dei Cieli sia – come spesso ci dipingiamo – bianco, etereo e silenzioso, perennemente uguale a se stesso, allora mi verrebbe da dire: «Però, che noia!».

Primark si estende in lungo e in largo per chissà quanti metri quadri, in un labirinto di vestiti e accessori claustrofobico, senza punti di confronto con l’esterno. Io per primo, dopo aver passato un po’ di tempo nel negozio – non chiedetemi quanto – ho sentito il bisogno di uscire fuori per una boccata d’aria; anche la mia partner, che di certo è molto più allenata a sopportare tale pressione (lo shopping non è uno scherzo), perse la cognizione del tempo nel giro di una sbirciata tra un capo e l’altro.

Penso assolutamente che il velo di eternità appena descritto sia costruito a scopo di marketing, volto cioè a prolungare la permanenza del consumatore medio, abbagliato dall’illusione magica del “non-tempo”. Così, chi decide di passare la domenica al centro commerciale, rimane incantato (o meglio stregato) dal senso di immobilità che lo circonda, sentendosi libero di guardare le cose con calma, aumentandone la probabilità di acquisto. Inoltre, sceglie di sedersi al tavolo per un pranzo veloce: allietarsi con cibi già cotti riduce potenzialmente i tempi per tornare alla ribalta con le spese pazze. In questo modo, sia il venditore del fast-food che il venditore della grande multinazionale sono contenti, e l’acquirente è pienamente soddisfatto.

Per chi avesse delle perplessità, il signor Mc Donald (così come i cugini Burger King ecc.) è l’esempio paradigmatico di come si possa fondare un impero commerciale sulla logica dell’atemporalità. Se notate, gli slogan alla televisione fanno sempre leva sulla nuova modalità frenetica della vita: «Lavori troppo? Non hai un momento nemmeno per sederti a tavola? Vieni da noi!». E davvero in 10 minuti te la cavi, riuscendo pure a prendere il treno delle 17.05 e con la pancia piena.

La fortuna oggi si realizza sulla privazione o sulla mancanza del tempo: in qualunque modo la si faccia, è sempre quest’ultimo a rimetterci. E così capita che la nostra esistenza si riassuma in una routine infelice, in cui ci preoccupiamo di lavorare al fine di sopravvivere, e nel contempo rincorriamo i momenti da dedicare a noi stessi senza aver il tempo per farlo perché troppo assorbiti dalla dimensione lavorativa. È un circolo vizioso.

Naturalmente è una pretesa generalizzare in questo modo, dato che la nostra vita dipende comunque da moltissime variabili come, per esempio, il tipo di lavoro, il luogo di residenza, la situazione economica, ecc. Ciononostante, ho l’impressione che vivere la modernità di oggi significhi fare le cose di fretta e col fiatone, almeno per una buona fetta della popolazione.

Detto questo, dobbiamo forse pensare che le multinazionali ci stiano fregando? È tutta una macchinazione per farci sperperare i nostri soldi? Se qualcuno dovesse sentirsi indignato, vorrei rispondergli: è soltanto il mercato, dovremmo quindi consideralo un complotto?

Nessuno vi sta ridendo alle spalle, sfregandosi le mani per la gioia di avervi truffato (o perlomeno non gli imprenditori onesti). Tutto gira attorno alla legge della domanda e dell’offerta: indovinare il modo più rapido per vendere una maggiore quantità di prodotti fa parte del gioco.

Personalmente, considero la questione alla stregua di una gara ciclistica: si può migliorare il proprio mezzo nell’ottica di renderlo più performante, ma non allo scopo di rubare la corsa (non è ammesso, per esempio, il “doping tecnico”). Come i giudici di una gara, il nostro compito di consumatori è quello di imparare ad osservare e a distinguere le due cose, in modo da essere più lungimiranti e preparati.

Questo ovviamente non significa che dovete smettere di andare al Mc Donald’s o al centro commerciale. Se per il mercato vale l’equazione non-tempo = denaro, noi siamo in grado da soli di scegliere se farne parte o meno: possiamo decidere di assecondare i gusti e le mode che le aziende ci propinano, sacrificando mezz’ora o un pomeriggio al miglior offerente, oppure di investire il tempo in qualcosa di nostro, senza che ciò dipenda dal suggerimento o la persuasione di qualcun altro.

 

Un po’ di storia della filosofia

Torniamo infine alla questione sul tempo propriamente inteso. Per chi volesse comprendere in maniera più sofisticata, mi deve seguire all’interno di un pensiero classico, quello di un noto signore del passato: Georg Wilhem Friedrich Hegel. Costui rimane uno capisaldi della filosofia moderna, soprattutto per aver introdotto una nuova dottrina della logica (per farla breve, un nuovo modo di concepire la logica come sapere razionale). Ebbene, un punto fondamentale (se non “il”) riguarda proprio la temporalità.

Secondo Hegel la differenza tra le cose, ossia la loro separazione (A ≠ B), si può dare solo in due modi: nello spazio e nel tempo. Ma è in quest’ultimo, rivela l’autore della Scienza della logica, che trovano fondamento tutte le cose, intese come finiti all’interno del tutto. Il tempo è infatti la relazione stessa tra le cose, l’infinito che comprende ogni finito dentro di sé: se non ci fosse la dimensione temporale non ci sarebbe rapporto tra le cose, ossia tutto sarebbe immobile, eterno. Nell’eternità infatti, sulla base di tale logica, non c’è tempo. Esso è invece dato dal modo della successione (l’essere “prima” e l’essere “dopo”), per mezzo della quale le cose si succedono, si rapportano in maniera dinamica.

Ora, vi ricordate i luoghi del “non-tempo”? Applicando tale ragionamento alla realtà, possiamo pensarli come templi della mondanità, in cui gli individui si trovano a vivere una situazione diversa dal quotidiano, una situazione senza tempo. In tale condizione, credo si assista ad un duplice fenomeno di “alienazione”, ossia uno stato di estraniamento dalla realtà*: 1) in primo luogo, da parte dei consumatori che vivono la dimensione atemporale per la breve durata di un pomeriggio (alienazione positiva); 2) in secondo luogo, da parte dei dipendenti delle aziende che, lavorando dalle 4 alle 8 ore giornaliere al chiuso in un ambiente innaturale, passano le ore diurne sotto la luce artificiale dei neon e spesso in una posizione statica (alienazione negativa: come del resto accade – è ovvio – per molte “classi” di lavoratori pubblici e privati).

Insomma, per concludere, il tempo umanamente percepito è una nostra condizione fondamentale, che spesso ci capita di sottovalutare. Vivere privati di questo elemento significa rinunciare, come si è visto, al nostro uso connaturato dei sensi, ma soprattutto al nostro vissuto storico: come Hegel sostiene, noi non viviamo solo l’attimo del presente, ma anche il ricordo del passato e l’attesa del futuro. Facciamo sempre parte di un contesto temporale, non lasciate mai che qualcuno se ne appropri.

 

Lorenzo Sabatani