LE MAPPE DEL SUOLO pensieri dallo scavo
La scorsa estate, nel momento in cui la piaga del Covid19 era sotto controllo, l’Italia intera potè tirare finalmente un grosso respiro, dopo l’apnea del periodo primaverile. La situazione era stazionaria, pseudo-normale; il lavoro – radice della nostra Costituzione – tornò ad essere stimolo di libertà quasi per tutti. Quasi.
Purtroppo, tra i tanti, anch’io sperimentai la precarietà della disoccupazione. Nell’anno che la storia ricorderà amaramente come il più infelice di inizio secolo, devo dire che comunque una vittoria l’ho ottenuta, avendo concluso ufficialmente la mia carriera universitaria, laureandomi tra le mura di casa, assieme alla mia famiglia. Ma la gioia del traguardo finì presto, lasciando posto al dramma del «e adesso?», nel momento peggiore in cui cercare uno spiraglio di motivazione.
Alla fine di luglio, dopo tanti se e ma iperbolici, uno stimolo mi fu offerto da zio Pietro (o Piero, per gli amici), operaio qualificato del settore “movimento terra”, divenuto capocantiere alla Ceroni Cave S.R.L. di Marradi: «Perché non vieni una mattina con me? Ti mostro come funziona il mio lavoro». Non era una proposta di assunzione, ma una semplice occasione per distrarmi dai quei pensieri che, per mesi, continuavano ad assalirmi sul divano di casa, e così avrebbero continuato a fare per molto tempo. Nella speranza di passare un giorno un po’ diverso dal solito, anche se sotto il caldo di piena estate, accettai senza molte pretese.
Il primo lunedì di agosto, mi levai dal letto sulle 5:40 del mattino. Zio sarebbe passato da me entro una mezzoretta, non potevo farmi trovare impreparato.
«Ammazza, così tutti i giorni si sveglia? Cosa bisogna fare per morire…», pensai di primo acchito, anche se ben presto ricordai che saremmo dovuti andare a Ravenna, nel cantiere in cui Piero lavorava già da un anno.
Che strano, essere oggi un operaio. Nel giro di venti o trent’anni è mutata la concezione del lavoro, in maniera totale. In passato, un giovane ben sapeva che se non era portato a studiare, il lavoro che si sarebbe trovato a fare da lì a pochi anni avrebbe consistito certamente nella manovalanza. Lavorare significava “manodopera retribuita”, uso della propria manualità, adoperare le mani. Insomma, ci si doveva rimboccare le maniche per vivere.
«Oggi invece la mia stupida laurea mi permette a malapena di sopravvivere…», pensai sconsolato mentre sorseggiavo il caffè, in attesa che una macchina aziendale imboccasse la salita di casa mia ed illuminasse quel poco di oscurità che restava della notte appena trascorsa.
Dopo qualche minuto, scendendo il vialetto, la vidi arrivare. Con un po’ di sorpresa, aprii la portiera e trovai dentro mio zio accanto a un altro mio zio: Fulvio!
«Buongiorno cari»
«Buongiorno Lorenco», rispose affettuosamente lo zio più giovane.
Fulvio è un geometra indipendente, ma già dall’inizio dei lavori è arruolato – assieme a Piero – dalla Ceroni Cave per seguire il progetto di una nuova zona residenziale per i cittadini ravennati, oltre a dedicarsi, parallelamente e in autonomia, all’ampliamento del parcheggio dell’ospedale civile, sempre a Ravenna.
Ero il più fresco e pimpante del trio, ma di certo io non andavo al cantiere con l’intento di adoperare le mani. Dalle facce assonnate e poco inclini al dialogo, notai una certa ritualità nei gesti e nelle espressioni, come se avessi già vissuto, in tutti quegli anni passati a lavorare nel medesimo settore, la routine giornaliera di un operaio. Lasciai loro il tempo di sciogliersi dal torpore mattutino e, dopo qualche minuto, decisi di rompere il ghiaccio con qualche domanda ben assestata sulla loro professione. Inizialmente erano un po’ spaesati da tutto quel chiacchierare, come se la risposta più scontata per loro fosse quella di mostrare il da farsi, anziché tentare di spiegarlo a parole.
«Beh, devi sapere che tutto quello che noi realizziamo, una volta finito, non lo vedi più», disse Piero semplicemente.
Questo piccolo assioma, tra il poetico e il matematico, racchiude il nocciolo del discorso su quello che per me è l’elemento primo: la terra. Infatti, proprio come accade per i cieli e per i mari, anche il terreno è tracciato da una miriade di opere umane di cui non ci rendiamo conto. C’è un intero mondo sotto i nostri piedi: tra pozzi e pozzetti, acquedotti per il convogliamento e la distribuzione dell’acqua, condotti fognari, gasdotti, impianti elettrici per la luce, impianti per l’illuminazione pubblica, cavi internet, fibra ecc. In pratica, non puoi permetterti di scavare una buca dove vuoi senza consultare le mappe del suolo. È tutto ampiamente registrato.
La nostra vita sociale, dunque, non solo è condizionata dalla superficie solida su cui ci appoggiamo, bensì nasce da essa e per mezzo di chi, di mestiere, affonda le mani nella terra fresca.
A metà percorso, prima di imboccare l’autostrada, tagliammo per Solarolo con l’intento di passare a prendere un altro dipendente della Ceroni Cave. Terenzio – gran bel nome, pensai – era un omone paffuto poco affabile, a cui gli zii si rivolgevano con l’appellativo “Terence”, anche se, personalmente, lo avrei soprannominato col nome di “Bud”, per via della stazza. Fatto sta che aprì la portiera della vettura e si mise accanto a me, nel sedile posteriore.
«Buongiorno Terence, lui è Lorenzo, mio nipote», si pronunciò Piero.
«Molto piacere», risposi io, cercando di apparire amichevole fin da subito, come se facessi parte della squadra da sempre. Ma non un cenno di assenso.
Evidentemente, che io fossi presente o meno, al grande Terence non importava. Sguardo dritto verso la strada, occhiali scuri, qualche sbuffo di disapprovazione per quel nuovo lunedì da maledire unito a frasi di circostanza su come si stava bene al mare il giorno prima.
Percorrendo l’A14 verso Ravenna, uscimmo seguendo l’indicazione per “Lidi sud” lungo il perimetro della città, bypassando una serie di rotonde, fino a raggiungere Via Stradone (lo svincolo verso Porto Fuori), la nostra destinazione.
Eccolo là il cantiere, in attesa di essere ultimato. Il progetto è quello di realizzare una nuova zona residenziale con un parco tutt’attorno, costellato da vialetti e verdi prati. Allora, però, il campo base era polveroso e brullo, colmo di macchine da lavoro e cabinotti degli operai, dentro i quali cercammo subito riparo dal primo sole. Erano appena le 7:05: Fulvio si staccò la terza sigaretta del mattino, Piero prese il secondo caffè da una macchinetta lì a lato del tavolo.
Chiedendomi cosa avrebbero pensato di me i loro colleghi, studiai un outfit che servisse a non dare troppo nell’occhio: mi vestii leggero, con un paio di scarpe vecchie ma sportive, jeans corti e una maglietta con sopra una sigla aziendale a me sconosciuta, la quale doveva fungere da diversivo all’interno del campo. Chiunque avesse incrociato il mio passaggio, ad una prima occhiata, mi avrebbe scambiato per un addetto ai lavori che monitorava il cantiere assieme al capo. Sapete, il fatto di andare a sbirciare le faccende degli altri, così, senza motivo, mi metteva un po’ in imbarazzo.
Nel frattempo arrivarono anche altri componenti della ditta, nessuno dei quali sembrava avesse fatto caso alla mia presenza. Pareva di stare tra vecchi lupi di mare, uniti da tante esperienze, ma mai completamente dipendenti l’uno dall’altro. Meglio così, tanto il mio obbiettivo era quello di passare inosservato fino al rientro.
«Scusate, ma la T.T. Edil di Modigliana non era fallita? Eh Piero?», disse improvvisamente una grossa voce alle mie spalle. Terence, che era appoggiato all’ingresso della baracca, aveva appena letto la sigla sulla maglietta che accuratamente avevo scelto per il camuffamento.
Inutile dirlo, ma la mia copertura era saltata: «Bel colpo Terence, mi hai scoperto! Sono proprio io, un povero pivello di periferia, diplomato in nullafacenza. Posso essere utile? Ti serve compagnia mentre scavi la buca?», avrei voluto ribattere.
La squadra era composta da altri tre membri, due dei quali non erano proprio più dei fanciulli, anzi. Uno di loro, Luca, era certamente il più giovane, sulla quarantina, di origine marradese, ma dalla parlata tipica delle nostre parti. Si esprimeva mescolando vocaboli alla toscana con un romagnolo stretto di paese: «No grazie, un me ghèrba fé Dracula in zìr», disse rivolgendosi ad un collega che gli aveva offerto un succo di arancia rossa. Assieme a loro collaborava una troupe di operai albanesi, appartenenti però ad un’azienda in subappalto, la quale contribuiva come manovalanza nello svolgimento delle operazioni materiali.
L’incarico che avrebbero dovuto conseguire quel giorno consisteva nel collegare due pozzi fognari, uno dei quali era situato però nell’area esterna al cantiere, oltre la strada che delimitava la zona dei lavori, verso il lato est della città. Bando alle ciance, ci recammo sul punto di interesse e cominciammo – o per meglio dire, cominciarono – a studiare la situazione. Gli addetti ai lavori si divisero in due o tre gruppetti al fine di delimitare l’area con alcune transenne e progettare il punto di scavo. Noi ci recammo invece verso il pozzo esterno per una ricognizione: Fulvio estrasse un apparecchio elettronico che emetteva un segnale a infrarossi, fungendo così da moderna livella per calcolare l’inclinazione geometrica tra due punti.
«Allora hai capito perché dobbiamo dare il 4×1000 al nostro condotto?», mi domandò Piero con fare da insegnante. Zio si riferiva ovviamente al dato registrato dalla macchina, ossia all’ubicazione che la nuova tubatura avrebbe dovuto avere una volta calata sotto terra, e cioè una pendenza di 4 millemetri (mm) per ogni metro (m) di lunghezza.
«Non ne ho la più pallida idea» – pensai ingenuamente tra me, mentre fingevo di ragionare sul problema – «Io do l’8×1000 quando vado alla CISL per la dichiarazione dei redditi, ma solitamente lo indirizzo alla Chiesa o alla ricerca scientifica, non ne conosco altri».
A tal proposito, Fulvio mi fece notare che l’impianto fognario deve sempre avere un’inclinazione minima verso il basso, affinché l’acqua scorra in modo continuo e defluisca poi dentro il mare. «Geniale!», mi dissi con la tipica espressione che può avere una scimmia dopo aver imparato a sbucciare la banana, nell’istante prima di prenderla a morsi.
Al cominciare dei lavori era passata poco più di un’ora e mezza dal nostro arrivo e Fulvio aveva appena acceso la sesta sigaretta del suo Golden Virginia. Due ruspe vennero impiegate nell’operazione di scavo, nei pressi delle quali il calore schizzava a mille per via dei grossi motori e del metallo riflettente che ricopriva la carrozzeria delle macchine, generando quella che pareva l’anticamera di un girone infernale. Il rumore era a dir poco assordante, ma tutto ciò non impietosiva la concentrazione degli operai, ai quali sarà sembrata la solita impresa di routine da svolgere. Io, al contrario, facevo pure fatica a stare fermo dall’afa che si era creata, al punto che, di tanto in tanto, cercavo sollievo in quel po’ di ombra situata ai piedi di uno dei cingolati (quello più grande); tuttavia, vuoi per il senso di colpa che mi attanagliava nel godere tutto quel fresco da solo, vuoi per lo sguardo poco rassicurante dei tre operai albanesi situati dall’altra parte del buco, le mie soste erano spesso limitate ad una toccata e fuga.
Ma col passare delle ore la situazione cominciava a sembrarmi ridicola, poiché l’unico che continuava a battere la fiacca imperterrito ero io. Non facevo che orbitare attorno ai miei zii come un piccolo Plutone silenzioso, che osservava la scena ai margini del gruppo, quasi di nascosto. Mi sentivo uno spettatore lì per caso, da una parte privilegiato nello stare aldiquà del cantiere, per una volta, ma dall’altra temevo di essere una presenza seccante ai presenti. D’un tratto, notai un vecchierello oltre le transenne che, proprio mentre transitava a lato dello scavo per vederlo meglio, teneva la classica postura da pensionato, con le braccia incrociate dietro la schiena.
«Oddio, sto mutando anch’io prima del tempo», pensai dopo essermi accorto di avere lo stesso identico portamento, con tanto di collo inclinato e i bracci all’indietro, «sono già appassito e non ho nemmeno versato un contributo per la vecchiaia. Sarò buono per il brodo».
A togliermi dai gangheri delle paranoie arrivò Fulvio, il quale mi chiese di scortarlo per un giro fuori porta, al fine di recuperare un apparecchio molto richiesto nel settore:
«Ti va di accompagnarmi a prendere lo scintillografo? Ci vorrà un po’ ma è comunque uno strumento che dovremo utilizzare a lavoro».
Uscimmo dal cantiere lasciando gli altri tra la polvere e il trambusto, quindi partimmo alla volta di Cesena. L’automobile imboccò la superstrada verso sud, mettendosi alle spalle la città dei mosaici e si avventurò così nella dorata campagna.
«Come lo vedi il tuo lavoro zio?», chiesi in un momento di pura confidenza.
«Il più bello del mondo», rispose Fulvio senza esitare: «sempre diverso, sempre da ragionarci sopra… perché, sai…». E così, mentre tentava di spiegarmi le basi della geometria, parlando di seno e coseno, volsi lo sguardo fuori dal vetro, perso, tra raggi di sole e fiori di campo, cercando di immaginare cosa diavolo potesse essere uno scintillografo. Lo strano aggeggio nominato dallo zio serviva, a quanto pare, per verificare l’integrità di un qualche rivestimento protettivo, come quello dei gasdotti, evitando in tal modo di trovarsi in pericolo di esplosione.
Recuperammo l’incredibile oggetto dalle parti di Bertinoro, tra Forlimpopoli e Cesena, dopo un’odissea di stradine di campagna. Tuttavia, non avremmo mai scoperto il suo reale utilizzo: Fulvio estrasse la sua scorta di tabacco e da come pregustava il suo sedicesimo drum immaginai che dovevano essere le 16:00 del pomeriggio, perciò era ormai giunto il momento rincasare.
Al campo base, una volta fatto ritorno, scorgemmo gli operai mentre finivano di smontare il cantiere: l’impianto fognario era stato ultimato e lo scavo nuovamente riempito. Proprio come rivelò Piero all’alba di quel lunedì, il grande buco non c’era più, così come la mole di tubi, cavi e condotti che abitavano il sottosuolo. Era come se nulla fosse accaduto, come se il terreno si fosse riappropriato dei suoi misteri.
«Com’è andata?», chiesi a Piero.
«Bene», rispose lui stanco. Dopodiché, senza che avessi avuto il tempo di chiederglielo, a malincuore aggiunse: «Mi piace il mio lavoro. Ciò che mi dispiace invece è che purtroppo non c’è più nessuno interessato a quello che facciamo. Una volta era un’attrattiva forte agli occhi di noi giovani, forse per via delle grandi macchine che cominciavano a circolare, un’ispirazione soprattutto per chi non aveva molte alternative… I miei successi e le mie sconfitte li devo anche a questo. Eppure oggi il mondo è diverso… ».
Così, mentre un giovane operaio della ditta subappaltata faceva a botte con un semaforo da cantiere, sotto gli occhi per niente stupefatti di mio zio, il quale si voltò come per dirmi: «Che ti dicevo?», ripensai con nostalgia a nonno Paolino, che da piccolo mi prometteva sempre una cosa, qualora mi fossi comportato bene: «Dai che dopo ti porto sul camion!».
Lo ripeteva come se fosse il gioco più bello del mondo, ma adesso so che per lui lo era davvero.
Sulla via di casa, dentro l’automobile, eravamo sempre i quattro del mattino. Guardavo con interesse il via vai della gente che rincasava, attraverso il vetro polveroso del finestrino. Pensavo al mio orto da innaffiare. Ora non importava se avevo un fisico da schiappa ed ero più stanco dei miei zii, pur non avendo mosso un dito tutto il giorno e loro si; non importava se Terence mi avesse nuovamente ignorato durante i saluti, nel momento in cui uscì dalla macchina per rientrare nell’appartamento. Ero felice.
Felice di aver imparato più cose dentro il buco di uno scavo che nella tristezza di un’estate vigliacca passata a piangere sopra me stesso.
Lorenzo Sabatani