OLTRE LA LINEA DEL FUOCO
Il seguente articolo cerca di mettere in luce alcuni fatti rilevanti del conflitto in Palestina, districati da quel groviglio di informazioni che ci arrivano molto spesso alterate dai canali ufficiali. I fatti esposti provengono dai luoghi in cui attualmente si stanno consumando una rappresaglia e una furia omicida da parte di un popolo nei confronti di un altro. Già perché se da un lato abbiamo condannato l’attacco terroristico del 7 ottobre da parte di Hamas – organizzazione estremista palestinese sorta in risposta alla condotta violenta di Israele – possiamo, dall’altro, prendere le distanze dalla reazione spropositata da parte dello Stato israeliano, senza cadere in alcuna contraddizione. L’occupazione degli ultimi mesi è sfociata in una repressione sconsiderata che viola i trattati internazionali e calpesta diritti umani e civili. A questo punto, di fronte agli ospedali bombardati e ai giornalisti uccisi, di fronte alle migliaia di vittime, di fronte ai discorsi pronunciati pubblicamente dai politici di uno stato (presunto) democratico – Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza israeliano, canta un coro da stadio inneggiando al massacro degli arabi (soprattutto alcune categorie che qui vi risparmio); Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, autodefinitosi fascista omofobo e razzista, blocca i fondi per le scuole arabe in territorio israeliano, demolendone altrettante su quello palestinese (fonti: Unicef, ONU); Benjamin Netanyahu, attuale leader politico d’Israele con esperienza trentennale, nega che l’epurazione degli Ebrei fosse un’idea di Hitler – siamo legittimati a interrogarci e a dubitare che la guerra combattuta ora sul suolo palestinese, anziché esprimere il diritto alla difesa di uno Stato, non rappresenti piuttosto la volontà d’Israele di sottomettere e cancellare un popolo in quanto diverso e totalmente altro da quello ebraico.
- NON SONO SOLO 75 ANNI DI CONFLITTI
Theodor Herzl fu il padre fondatore del Sionismo moderno, il movimento politico che prese progressiva importanza con il I Congresso di Basilea (1897) – la prima organizzazione sionista mondiale – e che vide la sua concretizzazione solo con la proclamazione dello Stato di Israele, nel 1948. Il Sionismo è di fatto un’ideologia nazionalista, e come i tanti nazionalismi sorti nell’Ottocento, essa rivendica il diritto di autodeterminazione del popolo ebraico nell’originaria Terra Promessa – descritta nel Tanakh e nella Bibbia, la quale coincide con la Palestina – oltre a quello di difendersi, di aver un nazione e una esercito riconosciuti.
Come si è passati da questa idea alla nascita effettiva dello Stato d’Israele, sappiamo essere avvenuto per gradi e in maniera tutt’altro che pacifica. In origine, sappiamo che Herzl era mosso dalla preoccupazione che il popolo ebraico non avrebbe mai trovato consolazione in Europa, ma solo desolazione – e su questo non si può dargli torto, vista la deriva nazi-fascista che comparirà sul continente. Tuttavia, per il teorico del Sionismo moderno c’era un’unica soluzione: l’immigrazione di massa degli Ebrei verso una nuova terra, la quale, secondo Herzl, non doveva coincidere per forza con la Terra d’Israele. All’interno del movimento sionista – maturato in terra inglese – appartenevano due correnti: sebbene per la sinistra laburista era importante solo il riconoscimento internazionale del futuro Stato, ovunque fosse sorto, fu l’idea di rivendicare La terra dei testi sacri ebraici a prevalere. Intanto era cominciata l’Alyia («la salita»), ovvero l’ondata migratoria che raggiunse la Palestina (allora sotto il controllo dell’Impero ottomano) portando a colonizzare soprattutto la Galilea: attorno ad Haifa e sull’area costiera in cui sorgerà Tel Aviv. La seconda ondata (1904-14) fu quella più intensa che posò le fondamenta del futuro Stato ebraico in quello che diventerà l’Yshuv, la «comunità ebraica» (nel 1917 erano circa 57.000). L’immigrazione cresce dopo la Grande Guerra e cominciano le prime rivolte arabe. Nel frattempo, la neonata Società delle Nazioni aveva deliberato, nel 1922, che la Palestina sarebbe rimasta sotto il protettorato britannico (che già aveva interessi in quell’area e supportava la causa ebraica). Questo fino al termine della Seconda Guerra mondiale e all’incubo del nazismo, quando nella primavera del 1948, dopo anni di colonizzazione violenta da parte di 1,5 milioni di Ebrei, la Gran Bretagna abbandonò la regione in favore della proclamazione dello Stato d’Israele, riconosciuto e appoggiato dall’Occidente. Neanche 24 ore dopo, scoppierà la I Guerra arabo-israeliana.
In sintesi, l’origine del conflitto, fondamentalmente etnico, non si deve alla Dichiarazione d’Indipendenza israeliana del maggio 1948, ma ha radici profonde di molti anni prima. Le successive guerre con gli Stati arabi, le rivolte e le sommosse, le emigrazioni forzate, il sorgere di nuovi kibbutz, l’invasione e l’attuale occupazione israeliana, si fondano tutte sulla rivendicazione millenaria di un pezzo di terra sacro – sia esso chiamato Palestina o Terra d’Israele – sul quale peraltro hanno camminato ben più di un paio di popoli, ancora prima della diaspora (Ebrei, Palestinesi, Egiziani, Babilonesi, Assiri, Romani, Arabi, Ottomani). Naturalmente, abbiamo visto che dietro alla contesa etnica s’inserisce la profonda motivazione religiosa che costituisce il nocciolo della vicenda, dato che per la maggioranza ebraica, già agli inizi del XX secolo, non esistevano alternative alla rioccupazione della Terra Santa.
- DEMOCRAZIA?
Israele pare essere l’unica democrazia in Medio Oriente, ossia è quella che – a partire dalla sua istituzione – si avvicinerebbe di più rispetto agli standard occidentali (escludendo la Turchia che sappiamo non essere esattamente un modello d’ispirazione democratico). Lo Stato d’Israele, infatti, corrisponde alla definizione, dato che: la sovranità risiede nel popolo che la esercita nel diritto di partecipare alla vita politica; si fonda sul principio di separazione dei poteri secondo la teoria di Montesquieu; si propone di rispettare il cosiddetto Stato di diritto, cioè l’insieme di diritti e libertà dei suoi cittadini. Già a partire dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, si può leggere testualmente che: la Terra d’Israele è sì il luogo di nascita del popolo ebraico, ma che lo Stato si sarebbe impegnato a promuovere lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dal genere e dalla razza, salvaguardando i templi di tutte le religioni e abbracciando i principi dell’ONU.
A discapito dell’immagine che vuole promuovere al mondo di sé, vogliamo sottolineare le ambiguità che si celano – ma nemmeno troppo – dietro alla leadership israeliana, al Likud, il partito governativo di estrema destra, e in generale allo Stato d’Israele, che col tempo è diventato un dispotismo di maggioranza. Rispetto al tema delle minoranze, per esempio, il parlamento israeliano pubblicò nel 2018 una legge controversa: The Basic Law: Israel is the Nation State of the Jewish People, che definisce Israele come la patria nazionale del popolo ebraico; le minoranze etniche – tra cui gli arabi che coprono per il 21% la Terra d’Israele – non vengono contemplate. Di conseguenza, l’ebraico è diventato a tutti gli effetti la lingua ufficiale a discapito dell’arabo; inoltre il provvedimento «incoraggia» e «promuove» lo sviluppo di nuovi insediamenti ebraici in territori occupati. Questi atteggiamenti razziali non sono nuovi, dato che già a partire dal ’67 – scrive il maggior storico israeliano Ilan Pappé – il governo di Tel Aviv aveva già sottoposto 1/5 della popolazione palestinese alla privazione dei diritti fondamentali. Lo Stato d’Israele, inoltre, è privo di una vera Costituzione scritta, ma detiene solo alcune leggi fondamentali (tra cui rientra quella del 2018). Le posizioni governative, a dir poco radicali, sono diventate ancora più estreme negli ultimi anni, come si evince dalla recente proposta giudiziaria – promossa dall’attuale leader Netanyahu – per la quale la Corte Suprema Israeliana non avrebbe più potuto interferire con i provvedimenti del Governo, portando di fatto al disequilibrio tra i poteri (la proposta è stata bocciata nel 2024). Tuttavia, la Corte Suprema Israeliana, lungi dall’essere un baluardo di democrazia, è la stessa che ha legittimato il progetto coloniale violento perpetrato nei confronti dei Palestinesi in tutti questi anni, dando il via all’espropriazione dei terreni, alla demolizione delle case e alla detenzioni amministrative in favore dei soli cittadini Ebrei.
È un fatto assodato che lo Stato di Israele, dunque, limiti l’esercizio dei diritti civili e politici sulla base dell’appartenenza etnica e religiosa dei suoi cittadini. Infatti, alle elezioni israeliane, possono votare 6,5 milioni di Ebrei e 1,5 milioni di Arabo-Israeliani, ma non i 5 milioni di Palestinesi che popolano la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza (territori controllati da Israele). I partiti arabi, inoltre, seppur presenti, sono di fatto estromessi dalla politica israeliana. Quello che succede in Israele è che se sei Ebreo e cittadino israeliano, allora lo Stato ti garantisce tutti i diritti; la stessa cosa non accade, però, se il tuo status civile è solamente quello di cittadino israeliano (non parliamo poi della popolazione palestinese, la quale vive sotto un vero e proprio regime di apartheid). In virtù di ciò, il fenomeno dalla migrazione in patria – la dottrina dell’ Alyia – è diventato ancora più allettante, dato che rivendicare le proprie origini ebraiche determina, oggi, non solo la cittadinanza israeliana, ma garantisce al richiedente una notevole sovvenzione finanziaria e un acquisto agevolato di una casa o l’espropriazione diretta di quella dei precedenti proprietari, da qualche parte sfollati o finiti peggio. La colonizzazione – kibbutz – tramite l’emigrazione forzata del popolo arabo, è una storia vecchia che si è prolungata per anni e oggi ancora: nel ’48, ventotto intellettuali ebrei, tra cui Albert Einstein e Hannah Arendt, denunciarono con una lettera al New York Times la deriva nazista dello Stato d’Israele; ancora: tra le voci italiane, Natalia Ginzburg affermava che il sionismo fosse diventato “un razzismo alla rovescia”; così, anche Primo Levi ne prendeva le distanze. Tra le tante che potremmo citare, queste sono le posizioni critiche più significative, trattandosi di voci interne al popolo ebraico. Molti intellettuali, figli delle vittime della Shoah, associazioni di fede ebraica hanno condannato negli anni la politica di repressione israeliana. Per ultimi possiamo citare – come se non bastasse – ex dirigenti di Israele e capi del Mossad, i Servizi Segreti israeliani, come Tamir Pardo, che sottoscrivono denunciando la sconsiderata politica di Netanyahu; oppure l’ex numero due del Mossad, Amiram Levin, che al The Jerusalem Post paragona l’apartheid in Cisgiordania alle atrocità commesse ai tempi della Germania nazista. Se crediamo a tutto questo, quando leggiamo la notizia di un progetto edile che vorrebbe la costruzione di nuove villette sul mare di Gaza city appena bombardata o che il viceministro della Difesa israeliano, Ben-Dahan (e non è l’unico), paragona i Palestinesi ad animali da uccidere: non somiglia vagamente a un progetto di pulizia etnica o genocida?
- STATO MILITARISTA
L’esercito d’Israele è una macchina da guerra nata all’indomani della Dichiarazione d’Indipendenza. È diventato il più famoso al mondo per la capacità di raccontare la guerra sui social. L’abilità propagandistica prende avvio a partire dal 2006, quando Tel Aviv, primo fra tutti, decide di investire su un team responsabile dell’immagine militare e della costruzione dei contenuti sul web. Un’analisi ha trovato quattro pattern di comunicazione sui social (l’organo è presente su oltre 10 piattaforme e conta milioni di follower): 1) i contenuti vertono su una nuova generazione di soldati, rappresentati come giovani nati in Israele; 2) i contenuti dipingono sia maschi che femmine volenterosi, sempre di piacevole presenza, accomunati da saldi principi, facendo leva sull’aspetto romantico del conflitto e del senso di comunità; 3) non si accenna quasi mai alla Palestina; 4) si fa costante riferimento alla minaccia di Hamas. Ovviamente la strumentalizzazione delle notizie ha sempre contraddistinto tutte le guerre, ma è facile capire che la strategia comunicativa sia quella di rendere la guerra combattuta da Israele una “partita” da supportare, giocando sul sensazionalismo e portando gli utenti ad affezionarsi in qualche modo alla causa.
In Israele tutti i giovani tra i 18 e i 29 anni sono tenuti a prestare servizio di leva militare obbligatoria, che dura dai due ai tre anni. Ovviamente l’esercito conta anche sull’intervento di circa 400.000 riservisti. Impressionante è l’influenza che la leva e la narrativa antipalestinese ha su molti di questi ragazzi, fieri di imbracciare le armi e votati alla completa “liberazione” di Israele. Chi si sottrae viene in qualche modo ripudiato e allontanato dalla società, rischiando gravi ripercussioni (in generale, le voci dissonanti sulla guerra e sulla Palestina non sono ben viste dalla “democrazia” israeliana). Secondo Breaking the Silence, Ong di ex militari dell’esercito israeliano (IDF) che denunciano la strategia di occupazione, i soldati verrebbero istruiti a colpire anche gli obiettivi più sensibili o aree densamente popolate, ignorando i civili, ritenuti tutti “militanti di Hamas”. Senza contare la brutalità del regime militare di controllo sui territori occupati che si consuma da anni: le incursioni, i pestaggi, i raid, i pogrom e tutte le violenze perpetrate ai danni di persone costrette ad abbandonare le proprie terre, luoghi di culto, templi storici, interi quartieri, il più delle volte recando offesa senza motivazione o reale minaccia. Israele è stato più volta denunciato per “crimini di guerra” da Ong come Amnesty International, EuroMed, Oxfam, Save the Children; è il paese più sanzionato al mondo per “violazione di diritti umani”, anche dall’ONU.
Eppure sarebbe superficiale condannare esclusivamente la violenza delle armi imbracciate dall’esercito israeliano, visto che il medesimo spirito di violenza fa parte ormai dello snaturato pensiero di gran parte degli Ebrei israeliani. La stessa barbarie umana la vediamo anche nei civili d’Israele (moltissimi) che bloccano l’arrivo degli aiutai umanitari organizzando rave party sulla strada o che si incontrano sdraiati come si fa davanti al tramonto, sopra di un promontorio, a mirare da lontano le esplosioni dei bombardamenti su Gaza, bevendo nel mentre un aperitivo (secondo il Time Politics, il 60% degli Israeliani ritiene attualmente che il governo debba utilizzare più forza contro i Palestinesi).
- EBREI v ISRAELIANI
Se denunciate la guerra, la colonizzazione, la violenza, il razzismo, no, non significa che siete antisemiti. L’antisionismo non è l’antisemistismo. Si può condannare un regime per le forme di repressione, per l’odio, per aver calpestato i diritti umani o per i crimini di guerra, senza che si passi a un discorso a sfondo razziale. Perché si sta parlando degli Ebrei in quanto Israeliani, non degli Israeliani in quanto Ebrei. Si condanna la politica del loro Paese, il Likud – il partito governativo di estrema destra – e la follia dei suoi progetti coloniali e di pulizia etnica. E non è una accusa a priori, per partito preso, perché sono le immagini che ci arrivano, i filmati, le foto a descriverci i fatti. È la Corte dell’Aja a sottoscriverlo, così come le Ong e molti governi di tutto il mondo. Malgrado le nostre testate giornalistiche portino spesso informazioni abbozzate e torbide di idee politiche, le immagini ci arrivano nitide lo stesso, arrivano come un pugno. Forse è l’unica nota positiva degli smartphone, il fatto che oggi un telefono di Gaza possa collegarsi e portare la voce di chi c’è dietro al resto del mondo. Per fortuna – o purtroppo – ci arrivano anche i video e le testimonianze del Paese “faro” di democrazia in Medio Oriente: da ciò che ne risulta, sembra piuttosto che siano loro – il governo israeliano e chi lo ha votato – a farne una questione razziale.
Secondo il parere di chi scrive, non c’è scusa che tenga per coloro – Israeliani o meno – che spacciano le critiche e le sanzioni al regime d’Israele come antisemite e insinuano a loro volta di antisemitismo: è un’argomentazione fallace e un’accusa infondata. Secondo due professori statunitensi, J. Mearsheimer e S. Walt, che hanno studiato le dinamiche della grande Lobby israeliana negli States, tra i tanti poteri che hanno influenza sulla politica, l’accusa di antisemitismo è il grande «silenziatore» che mette spesso a tacere le voci fuori dal coro pro-Israele. Loro malgrado – come sottolinea anche Amiram Levin, ex capo dei Servizi Segreti israeliano – se in Europa e nel mondo stanno risorgendo pericolose le idee antisemite – da cui ci dissociamo e ne critichiamo aspramente le infondatezze – la causa è anche da attribuire alla scellerata politica colonialista e razzista d’Israele.
Lorenzo Sabatani
FONTI
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La Stampa, Il Fatto Quotidiano, Corriere, Internazionale
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Libri:
Vercelli, “Storia del conflitto israelo-palestinese”, 2020